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Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze

Читать бесплатно Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze. Жанр: Разное издательство -, год 2004. Так же читаем полные версии (весь текст) онлайн без регистрации и SMS на сайте kniga-online.club или прочесть краткое содержание, предисловие (аннотацию), описание и ознакомиться с отзывами (комментариями) о произведении.
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Alla fine comparve un punto nero dalla lontana, il quale andava ingrandendosi a mano a mano che si accostava. Pervenuto a convenevole distanza, uno di coloro che aspettavano gli messe contro la voce dicendo:

“Come ti chiami?”

“Mi chiamo Odio; e tu?”

“Vendetta.”

“Vieni dunque, sposiamoci; ci sono amiche le tenebre, e gli spettri assisteranno ai nostri sponsali.”

“Quale è il dono delle nozze che mi dai?”

“Io ti darò un pugnale”.

“Il tuo pugnale ì corto”.

“Basta per giungere al cuore dei nostri nemici”.

Allora si accostarono, si strinsero le mani e stavano per cominciare il colloquio, quando, non si potendo più frenare, il Castiglione proruppe:

“Ahi! traditori, siete tutti morti”. E, balzato di un salto fuori della siepe, prese a minacciare i traditori col ferro.

Vico, Pieruccio e il Martelli lo seguono cacciando urli spaventevoli.

Capitolo Decimonono

La sfida

I congiurati, dalla subita apparizione soprafatti, dai forti gridi atterriti, mal potendo distinguere quanta gente e quale venisse loro addosso, si volsero a fuga precipitosa. Il Martelli coll’ardore del veltro si pose alla ventura dietro le tracce di uno fra loro; passarono il borgo di Santo Iacopo; con uguale prestezza la piazza di Santo Spirito traversarono, il canto alla Cuculia e le vie contigue della Fogna, del Leone e dell’Orto; non profferirono parola, imperciocchì la rapidità del corso loro impedisse la voce; erano entrambi gagliardi, entrambi di pié velocissimo, sicché l’uno poneva l’orma dove l’altro la lasciava, e spesso il fuggitivo sentì rimanersi svelti i capelli tra le dita dell’inseguente e dall’alito infiammato di lui avvamparsi le guance; continuano la fuga e la cacciata per Camaldoli, per Borgo San Frediano, lungo le mura, e riescono al Ponte alla Carraia. Qui lo inseguito avendo il buon tratto precorso il suo persecutore, si fermò e, quasi vergognando essersi lasciato vincere dalla paura, gitta via la veste di frate che lo impaccia, e, tratta la daga, si pone a capo del ponte in atto di difesa.

Quantunque il Martelli non avesse gridato accorruomo, pure, correndo vicino alla Porta San Friano, le milizie quivi stanziate udirono il rumore, ed alcuno di loro, mosso da vaghezza o da comando, si pose per buon rispetto a seguitarlo. Lui però travolto da quell’impeto non se n’era accorto, e comecchì al paragone dell’inseguito gli fosse mancata la lena, nondimeno precorreva di assai coloro che gli si erano fatti compagni.

Il fuggitivo, se lo vedendo accostare, stette in forse di ucciderlo e poi riprendere il corso; ma considerando come l’inseguente si avvicinasse lui pure con la spada nuda, nì dalle sembianze apparisse uomo da spacciarsi così ad un tratto, temé perder tempo a chiudersi ogni strada allo scampo, onde ì che, di nuovo voltate le spalle, passasse il Ponte della Carraia.

Il Martelli, confortato dal pensiero di vederselo più vicino, immaginando costui avesse fatto sosta a riprender lena e baldanzoso per riputarsi sul punto di arrestarlo, raddoppia lo sforzo, sicché in quella fuga rovinosa, percorrendo nel buio della notte uno spazio sospeso tra le acque e il cielo, non muovendo altro rumore che quello dei passi velocissimi, si assomigliavano alla visione della donna scapigliata inseguita dallo spirito del cavaliere Giuffredi intorno alla fossa dei carboni ardenti, esposta dal dottore Elinando di santa memoria, a conforto dei buoni e per terrore dei tristi.

Così trasvolando pervennero in via di Parione; colà sul canto che mena alla Vigna Nuova stette una casa onorata di cui adesso non rimangono vestigi.

Sebbene alta fosse la notte, una finestra di cotesta casa appariva illuminata da luce solitaria, quale si addice alla veglia di un filosofo o alla insonnia di un penitente. A quel punto si dirige il fuggitivo; e giuntogli dappresso, manda un fischio acutissimo. Allora fu veduta balenare la luce, come fiamma che si accenda nelle notti di estate, e sembra stella che tramuti luogo. Il fuggitivo scomparve voltando il canto, e Ludovico, di cui all’anelito sofferto per la fatica si aggiunse un palpito più veemente del primo, giunto a capo della via, si volse bramoso e non vide né udì più nulla: il fuggitivo era scomparso. Allora Ludovico pensando alla veste di frate, al luogo, ad una certa rimembranza confusa delle forme del fuggitivo, al lume mosso, un lampo sinistro d’intelligenza gli strisciò sull’anima, sentì riardergli un’ira feroce le viscere. Si avvicinò alla casa di Maria Benintendi.

Nuovi forti colpi e di mano in mano tempestavano alla porticella; sicchì la Maria, timorosa non destassero il vicinato, fattosi cuore, si reca in mano la lampada e scende:

“Ch’è questo, messeri?”

“Aprite in nome della Signoria.”

“Messeri, io sono gentildonna e sola in casa; questa magione appartiene a Niccolò Benintendi, che stanotte è dei Buonuomini al palazzo; – però avete tolto sbaglio, e lasciatemi in pace”.

“Se sola vi trovate o accompagnata, poco c’importa. Noi non iscambiamo dimora; aprite di queto od atterriamo la porta.”

Maria per lo men reo consiglio, paventando peggio, aperse l’uscio. Ludovico Martelli non aveva ad arte alterato la voce; in breve spazio anima e corpo gli aveva così stravolto la sua fiera fortuna ch’egli stesso, non che altri, non sarebbe giunto a riconoscersi per quello che fu; gli occhi a mezzo chiusi e invetriati, come quelli dell’etico; i muscoli del volto rigidamente immobili, la bocca aperta, i labbri cadenti, e d’ora in ora un anelito impetuoso gli prorompeva dalle narici dilatate; spaventevole a vedersi come la testa mozza che il carnefice afferra pei capelli e mostra in testimonio di ferocia ai popoli stupiditi.

E di vero Maria ne rimase spaventata: col capo inclinato verso la spalla, pallida, quasi vinta dal fascino, si pose a salire la scala. Il Martelli poneva il piede dove ella moveva il suo. Pervenuti a mezzo della domestica cappella, si fermarono, l’uno di faccia all’altra, né si guardavano né movevano labbro....

Finalmente Ludovico, continuando nella sua immobilità, con voce che gli usciva dai precordii incominciò a favellare: “Svelami traditore che hai riparato qua dentro....”

“Traditore?” – esclama Maria dimostrando col gesto altissimo sdegno, – “dov’ì il traditore?”

“Non te l’ho detto? Qui”.

“Io non conosco traditori....”

“Donna, che, piena dentro di putredine, tu ti mostrassi di fuori parete scialbata, bene sta: ella è questa la vostra parte, femmine! ma che in breve spazio tu abbi perduto il rimorso e il pudore, ciò, per Dio, mi spaventa. Qual è il verme velenoso che così subito guastò il bell’albero della tua vita? Or dove ti nascondi codardo dal fiato velenoso? Esci fuori…” Nessuno risponde. Dopo lungo silenzio Ludovico continua:

“O patria mia! uomini che non ardiscono mostrare la fronte t’insidiano nell’ombra; quando la notte ì più buia essi aguzzano il pugnale e ti aspettano al varco, come il ladrone sulla pubblica via!”

E di nuovo si tacque, poi con gran voce riprese:

“Esci, codardo, esci”.

Così favellando si aggirava per la stanza, quando all’improvviso levando la faccia vide un cavaliere di truce sembianza appoggiato su l’elsa della spada in atto di quiete minacciosa: lui allora, gli si avventando addosso, interrogò:

“Tu sei un traditore!…”

“Io sono Giovanni Bandini, e sgombrami il passo”.

“Tu di qui non uscirai, se non che morto”.

“Figlio di madre infelice tu sei, se più oltre ti ostini a impedirmi il cammino; ritirati, tu ne hai tempo ancora; io non voglio vederti; sappi che di rado ho replicati i miei colpi; vattene… e vivi”.

“Anzi io rimango, e muori; domani il carnefice ti scriverà l’epitafio su la cima della forca. Bandino, domani manderò la sfida e chiederò il campo a messere lo principe… badate di non ricusarla....”

“Tale e così insopportabile obbligo ho teco per avere salvata la mia vita, che in nessun altra maniera potrei sdebitamene, se non che togliendoti la tua. Il mio odio diventò, pel tuo benefizio, immortale. Apparecchiati a morire.... Addio”.

Capitolo Ventesimosecondo

Il duello

Pagolo Spinelli, soldato vecchio di moltissima esperienza, padrino di Ludovico, con certo suo piglio soldatesco, presentatosi davanti al principe di Orange, il quale, tostochì vide entrare nella sua tenda cotesta nobile comitiva, si era alzato insieme co’ suoi baroni per complirla, proferì pacato le seguenti parole:

“Signor principe, sono qui il mio principale, messere Ludovico Martelli e il principale del capitano Giovanni di Vinci mio collega, messere Dante da Castiglione, i quali si apprestano al vostro cospetto con loro cavalli ed armi, in abito da gentiluomini, per entrare in campo chiuso e combattere messere Giovanni Bandino e messer Roberto Aldobrandi, che qui vedo presenti, loro avversari, col nome di Dio, di Nostra Donna e di San Giorgio il prode cavaliere, secondo il tempo e il luogo da voi medesimo assegnati con vostra patente del dì primo marzo 1529. Loro stanno allestiti a fare il debito loro e vi ricercano che vogliate dar loro parte del campo e sicuranza, dove confidano vincere con lo aiuto di Dio e col favore dei santi. E poichì hanno i miei principali concesso agli avversarii la scelta dell’arme, si protestano di questa capitolazione, la quale, dopo che sarà da me letta, depositerò nelle mani vostre per rimanervi come giudice ad ogni buon fine di ragione”.

Don Ferrante Gonzaga allora si trasse innanzi col conte Pier Maria Rossi di San Secondo, ambedue patrini del Bandini e dell’Aldobrandi, e favellando il primo tal dava risposta alle dichiarazioni del capitano Pagolo Spinelli:

“Signor principe, qui stanno i nostri principali messer Giovanni Bandini e messere Ruberto Aldobrandi, pronti a scendere in campo chiuso e sostenere con lo aiuto di Dio, di Nostra Donna e di san Giorgio, a tutta oltranza, finchì morte ne segua, la querela avuta dagli attori falsa e mendace; protestano accettare tutte e singole le cose contenute nella capitolazione avversaria; protestano voler combattere in camicia, con istocco, manopola scempia di ferro, cioì fino al polso, senza difesa in testa. Più presto fia, e meglio loro aggrada”.

…Già il sole declinando oltre il meriggio segnava l’ombra delle cose da ponente a levante quando Pagolo Spinello, recatosi in compagnia di Giovanni da Vinci alla tenda del principe, disse: “È l’ora”.

Ritiratosi l’araldo, e fattosi un solenne silenzio, si udiva lo squillo delle trombe; cessato che fu, comparvero fuori dai padiglioni i padrini seguiti dai loro principali, che a passi lenti e con sembianza severa s’incamminarono alla volta del principe; – seguivano dalla parte dei provocati, due araldi portanti un fascio di armi, imperciocché spettasse loro il carico di provvedere stocchi e manopole. Venuti alla presenza del principe, i padrini posero un libro degli Evangeli sopra certo altare, e fattosi ognuno alcun poco da parte, lasciarono ai lati dell’altare Ludovico Martelli e Giovanni Bandini: sporse il primo bramoso la mano sinistra e, stringendo la destra al secondo e tenendogliela ferma sopra il libro, proruppe con terribile impeto:

“Uomo ch’io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi santi la mia querela contro a te buona e giusta, e tu combattere proditoriamente contro la patria.”

Il Bandino subito svincolando la mano e afferrando a sua posta con la manca la destra del Martelli, con voce cupa rispose:

“Uomo ch’io tengo per la mano, giuro per Dio e per gli suoi santi essere la tua querela contro di me temeraria, e possa il tuo sangue ricadere sopra la tua testa.”

Suonarono le trombe e fu fatto silenzio. I combattenti e i padrini si divisero in due partite. Dante, Bertino, Giovanni da Vinci e il conte Piermaria si pongono da un lato del campo, – Ludovico, Giovanni, don Ferrante e Iacopino dall’altro.

Allora tesero due corde che in due lizze uguali partirono il campo. I padrini con molta avvedutezza avvolsero e legarono i cordoni pendenti dall’elsa degli stocchi intorno al polso dei combattenti; quindi toltili pel braccio, li guidarono a mezzo il campo, dove distribuito con vantaggio eguale il vento e il sole, si ritirarono dicendo:

“Dio vi aiuti!”

Quando prima scesero in campo, Ludovico e il Bandino si gittarono giù dalle spalle un mantello che gli riparava dal freddo, né presero cura di metterli tanto in disparte che non potessero in seguito apportare loro impedimento.

Tremavano entrambi; se alcuno dei due avesse avuto animo più pacato, al primo colpo terminava la battaglia. I circostanti mandavano un mormorio simile a quello degli spettatori mal soddisfatti di uno spettacolo scenico: pareva che non osassero, eppure cotesta esitanza nasceva dall’odio soverchio che infiammava ambedue; avevano per trucidarsi mestiero che quella ardente passione si sfuocasse. Alloraquando diventò l’ira pacatamente omicida cominciarono le disperate percosse, e furono poste in pratica le arguzie tutte, gl’inganni e le orribili arti di tagliarsi le membra.

Volle sventura che, mentre dava il Martelli un passo indietro per ischifare una botta, il piede gli s’intricasse nel mantello, sicché venne a perdere l’equilibrio del corpo, onde il Bandino sottentrando veloce lo giunse, comeché leggermente, con la punta della spada sopra la fronte tra ciglio e ciglio. Ludovico, toltosi d’impaccio, rispose di una stoccata tesa, la quale avrebbe da parte a parte trafitto il Bandino, dove questi non avesse piegato speditamente il corpo, non tanto bene però che lo stocco nemico non gli forasse la carne sotto la poppa manca e via gli portasse una lunga brandella di pelle.

La ferita riportata da Ludovico sopra la fronte stillando sangue glien’empie gli occhi e gl’impedisce la vista: lui fruga per trovare un pannolino: non lo avendo o non lo trovando, tenta strappare una nappa di seta pendente ai cordoni avvolti intorno alla sua mano. Un solo istante china lo sguardo per vedere di bene afferrarla, e questo istante bastò al Bandino per sollevare la spada e alargliela sopra la testa.

Improvvido di consiglio, ma ben fermo da saltare indietro o da parte, il Martelli allunga la mano e stringe il taglio della spada nemica; il Bandino la tira a sì con forza e gliela recise fino all’osso; intanto il sangue negli occhi si condensa più copioso; lui comincia a scorgere mezzo gli oggetti, confusamente, circondati da iride sanguigna; gli scorre un sudore ghiacciato per tutto il corpo; sente intronarsi le orecchie di un zufolio fastidievole: due volte si vide il ferro del Bandino minacciante sul capo, e due altre volte, riportandone sempre profonde ferite, si difese con la mano sinistra; fermo di morire, ma bramoso di trascinare seco l’avversario nella tomba, punta la spada al petto e precipita là dove gli sembra che stesse il Bandino: fu agevole a questo sfuggire quel cieco moto, pure così rapido gli venne addosso che gl’incise buona parte del braccio di larga, non già pericolosa, ferita. Il Martelli rimane scoperto e in qual parte siasi ritirato il suo avversario non vede; mentre brancolando si sforza incontrarlo, una fiera percossa gli spezza la testa e lo costringe a vacillare come uomo ebbro di vino; barcolla tre volte e quattro… sta… trema… e finalmente cade stampando della sua persona un’orma sanguinosa sopra la polvere.

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